LA STANZA BUIA
di Simona Levi
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Solo il giorno in cui non ci saremo più, sapremo quante persone siamo state nella nostra esistenza, perché ogni minimo cambiamento che sfiora la nostra vita, aggiunge sfumature diverse al nostro essere. Di questo ne sono convinta.
Oggi sarà una giornata complicata, lo capisco appena mi sveglio e metto in fila mentalmente tutte le cose da organizzare:
- Accompagnare le ragazze a scuola: fatto
- Asilo Pietro: fatto
- Lavoro, pranzo, organizzare compiti: fatto
- …le ragazze a danza: fatto
- Visita senologica di controllo…
Arrivo nello studio medico verso le cinque, con mezz’ora d’anticipo. La sala d’aspetto è semivuota e l’infermiera che mi fa accomodare dicendomi che ci sarà d’aspettare un po’. “Non è una novità”, penso tra me, “le ragazze le riprende Francesco, la cena è solo da riscaldare…”. Mi metto comoda.
Arriva il mio turno ed inizia il viaggio tra una stanza e l’altra dello studio dove mi aspettano macchinari di altissimo livello, di ultima generazione.
La penultima stanza è lo studio del senologo che mi spiega in un linguaggio comprensibile e rassicurante quello che le macchine hanno visto, le stesse che vomitano una dietro all’altra immagini ad alta definizione, ignare di poter delineare il futuro di una persona.
Il medico mi fa accomodare dicendomi che va tutto bene, ma… La mia testa inizia a vagare: “Ma? Che vuol dire questo con “ma”. Il cuore inizia a battere sempre più velocemente. Non sono preparata…nessuno lo è mai!
Mi spiega che ho delle micro calcificazioni che di per sé non hanno significato, ma che si sono raggruppate tra di loro in una maniera anomala che gli lascia qualche dubbio: occorre un ulteriore accertamento per escludere che si tratti di una qualche formazione maligna.
La mia testa elabora: formazione maligna uguale tumore.
E’ il 25 novembre 2005, un giorno come tanti nel calendario di una vita.
E’ il 25 novembre 2005, un giorno unico nella mia..di vita.
La notizia buona è che “l’ulteriore accertamento” lo posso già pianificare con la sua segretaria che farà in modo di darmi un appuntamento a breve.
Sono in totale confusione ed entro come un automa nell’ultima stanza, dove ad attendermi c’è una donna senza camice che con il sorriso sulle labbra mi comunica che è riuscita a trovarmi un posto libero per la settimana seguente ed inizia a scrivere il mio nome sulla pagina dell’agenda corrispondente alla data ed all’orario prestabilito.
Mi risveglio dal torpore in cui mi sono persa solo quando con il sorriso sulle labbra mi dice che con circa 1.800 Euro faccio tutto, più la visita appena fatta e bla bla, bla bla.
Dentro di me nasce una rabbia enorme: “Brutta befana, ma io posso avere un tumore al seno, posso morire e tu mi parli di soldi che oltretutto non ho?”
“Signora, lasci perdere tutto. Ci devo pensare, le farò sapere al più presto…”
Sono fuori dallo studio e non vedo l’ora di allontanami da quelle macchine e da quelle persone che ritengo colpevoli di aver messo in dubbio che la mia vita non sarebbe stata più la stessa.
“Come faccio a trovare i soldi?”. La domanda mi ronza in testa, fastidiosa, ma concreta tanto che l’emotività lascia spazio alla ragione. Mutuo, rata della macchina, assicurazione… non ce la posso fare…la tredicesima…no, me l’accrediteranno il 20 dicembre, troppo tempo…come posso fare? Come?
Mi torna in mente un amico di mio padre che lavora nella sanità e la mattina dopo lo contatto. Il sistema è sempre lo stesso e come spesso accade dove non arrivano i soldi, possono le raccomandazioni.
Devo fare una biopsia con un macchinario particolare che effettua un prelievo multiplo di tessuto mammario. L’ambiente è buio, la posizione è scomoda ed il dolore, dopo che l’effetto dell’anestesia locale scema, è acuto.I giorni che seguono sono d’attesa per quell’esito che potrebbe cambiarmi la vita.
Fra pochissimo sarà Natale e i preparativi mi tengono occupata, ma la testa è sempre lì, un chiodo fisso che mi trapassa cuore e cervello.
Squilla il telefono e riconosco il numero del centralino dell’ospedale.Sono in cucina, rispondo. L’esito è pronto, posso andare a ritirarlo.
Sono seduta, da sola, davanti al chirurgo. Lui parla ed io acolto: mi sento avvampare, il cuore mi batte forte in gola, deglutisco a fatica: “Carcinoma lobulare in situ…quadrantectomia…linfonodo sentinella… repere metallico”. Questi termini, dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio, che la mia vita è cambiata, che sono entrata in una nuova dimensione.
Rabbia, si…rabbia, ma più che altro stupore, meraviglia: so che il cancro esiste, lo so perfettamente, ma in fondo al mio cuore ho sempre pensato di essere immune al suo attacco bastardo. Invece no, mi stanno dicendo che ho il cancro. Uno squarcio sulle mie certezze e divento all’improvviso vulnerabile e mortale.
Senza rendermene conto mi trovo catapultata in un macchinario di una catena di montaggio che prima demolirà la mia vita ed il mio essere per poi ricostruirlo piano piano.
Ho perso in quel momento il mio libero arbitrio perché la malattia, prima di toglierti la vita, ti toglie la libertà di scelta.
Gli ingranaggi fanno muovere il tapis roulant dove sono appena salita, immobile.Mani esperte mi muovono, mi tagliano, mi asportano, mi ricuciono…una, due, tre…sei volte per trasformarmi in quella donna che oggi vedo riflessa nello specchio.
“Mi sottopongo ad una quadrantectomia, così poi torno alla mia vita”, questo…fiduciosa…penso.“No, Signora. Non può tornare ancora alla sua vita perché anche se il linfonodo sentinella è negativo, nel quadrante che le abbiamo asportato convivono tre neoplasie diverse, per sicurezza…”mastectomia”.
“Mi sottopongo ad una mastectomia, così poi torno alla mia vita”, questo…fiduciosa…penso.
“No, Signora. Non può tornare ancora alla sua vita perché anche se le ho detto che il suo seno sarebbe stato ricostruito in sala operatoria, ho omesso di specificare che la prima volta che si guarderà nello specchio vedrà un taglio orizzontale al posto della sua vecchia mammella.” Mi guardo, mi vedo, piango.
“Mi sottopongo a ricostruzione plastica, così poi torno alla mia vita”, questo…fiduciosa…penso.
“No, Signora. Non può tornare ancora alla sua vita perché, visto che il suo cancro potrebbe ripresentarsi anche nell’altro seno, per sicurezza…mastectomia”.
“Mi sottopongo ad un’altra mastectomia, ad un’altra ricostruzione plastica, così poi torno alla mia vita”, questo…fiduciosa…penso.
“No, Signora. Non può tornare ancora alla sua vita perché, per sicurezza, la faccio parlare con l’oncologo e l’oncologo mi dice che, per sicurezza, mi devo sottoporre ad un ciclo di chemioterapia…”
“Mi sottopongo…. No, basta! Ogni cellula, malata e non, del mio essere si ribella a questo nuovo invito a demolire, ad invadere di nuovo il mio corpo, mutilato e sofferente. Basta! “Per sicurezza” non voglio fare più niente e soprattutto, non voglio perdere i capelli, non voglio vomitare, non voglio indossare la maschera del malato di cancro che la chemioterapia inevitabilmente dipingerà sul mio volto.”
“Rifiuta chemioterapia”, questo c’è scritto nella mia cartella clinica e non saprò mai con certezza, se, quella mia decisione sia stata poi la causa degli eventi che a distanza di anni, mi travolgeranno. Per coerenza verso me stessa, vista la decisione presa, resetto tutto e ricomincio a riordinare tutti i cassettini della mia vita.
Pulizia, ordine, controllo totale di tutto e di tutti: si riparte.
Non c’è spazio per l’emotività ed è la testa a governare.
Apro gli occhi sulla mia vita di coppia e quello che vedo mi annienta. Mi rendo conto che l’uomo che ho accanto, il padre dei miei figli non ha la minima idea di ciò che ci stia succedendo perché io continuo ad essere forte, a fare la madre, la figlia e la moglie. E’ spaventato solo dal mio corpo e me lo fa capire chiaramente. Lo allontano fisicamente con tutte le mie forze perché non posso aggiungere altre sensazioni negative al carico che già sto portando sulle spalle.
La vita in casa rotola via nella più totale routine, incolore.
Il cancro è nel suo cassettino che viene riaperto ogni sei mesi per i controlli e subito richiuso.
I ragazzi crescono e ho tutto sotto controllo: dall’orario scolastico, ai compiti, alle vaccinazioni, alle feste di compleanno e così via.
Mia madre… oh, mamma, quanto mi manchi!!!!!
Salgo le scale di casa sua, busso alla porta e c’è lei che mi sorride. E’ tranquilla, mi fa entrare. Mi dice che c’è una signora con lei, ma che non sa chi sia. La guarda in maniera sospetta e cerca da me una risposta tranquillizzante. “Mamma, ma è Lilli, abita con te, ti fa compagnia”. Si rasserena e po’…i mi dice: “Ma chi è quella signora?”.
Mamma.
Salgo di nuovo le scale e busso alla porta, ma questa volta mi viene ad aprire Lilli e mi dice che oggi la mamma ha una brutta giornata. Mi guarda, la bacio, mi sorride. Si avvicina a Lilli e le chiede: “Ma chi è quella signora?”. E’ stato il giorno più brutto della mia vita.
10 febbraio. Sono in tuta, ho appena finito di pulire tutta casa, ho controllato i compiti dei ragazzi, ho chiamato la badante di mia madre e perfino steso i panni di tutte le lavatrici fatte. La cena è sul forno, quasi pronta. Squilla il telefono, ma non ci faccio caso. I ragazzi mi ricordano che tanto è sicuramente per me visto che oggi è il mio compleanno.
Pigramente prendo in mano il cellulare, ma non riconosco il numero. “Pronto, mi senti?”. Mi paralizzo e per qualche frazione di secondo che mi sembra un’eternità, non riesco a proferire parola. “Sei tu?” balbetto. La conversazione che segue, per quanto banale e di circostanza, mi cambierà di nuovo la vita.
E’ Lui: l’uomo che non si dimentica, colui che farà per sempre parte della tua vita. Passato, presente, futuro…lui c’era, c’è, ci sarà. Un sogno di vita, occasioni mancate, la prova che il cuore non è solo quel muscolo imprigionato nella gabbia toracica. Ho lo stomaco contratto e le emozioni si rincorrono. Il cuore, ”il muscolo”, inizia a battere, forte, più forte, martellante nella mia testa. Sensazioni mai dimenticate riemergono forti, determinate ed il tempo trascorso si sgretola piano piano riportandomi nella morsa di quell’amore passato che dei miei pensieri è rimasto per trent’anni il protagonista, seppur discreto, ma sempre presente.
Mi guardo allo specchio e mi vedo: sciatta, grassa, trasandata… mamma, casalinga, impiegata. Mi vedo…finalmente! L’immagine che mi si para davanti non mi piace, contrasta con la vita che mi sta di nuovo pulsando nelle vene e che invoca a gran voce la donna che ero.
Vado dalla parrucchiera, dieta, shopping… trousse dalle tante sfumature, mascara, rossetto, scarpe con il tacco e abiti attillati. Mi sento a mio agio ed i movimenti del mio corpo, il mio sorriso di nuovo aperto lo dimostrano a me ed agli altri.
Sto prendendo il sole in giardino, un occhio al cellulare in attesa dei soliti messaggi che ormai fanno parte della quotidianità. La mente, a volte, è dispettosa e non riesco a concentrarmi su quello che voglio, sul sogno che si è avverato. Perché non riesco a godere di ciò che ho ritrovato e perché ostinatamente e prepotentemente il pensiero corre verso quell’uomo che non c’entra niente con la mia vita, ma che ovunque guardi, mi si presenta davanti?
Due braccia che si sfiorano e due sguardi che si incrociano, stupiti e meravigliati per i brividi provati. E’ arrivato, assolutamente non cercato, ma dirompente ed entusiasmante…l’amore, quello con la “A” maiuscola è arrivato ed ha rimescolato tutte le carte in tavola facendoti giocare una partita tutta nuova. Lo senti con tutto il tuo essere e lo vivi con tutta te stessa, fino all’ultima cellula, anche quella che tra non molto ti tradirà.
Si, ti tradirà… Analisi di routine, un marcatore che si muove leggermente. Chiamo l’oncologo più per dovere che per altro. Ripeto l’esame ed il valore è di nuovo asteriscato. Programmiamo una Pet, ma con la massima tranquillità. Vado a ritirare i risultati e leggo con attenzione il referto, ma non mi è chiara la frase finale che riassume il mare di parole precedenti: “Conclusione: lesioni secondarie multiple”.
Non so decidermi se il termine “secondarie” sia un bene o sia un male. Mi siedo su una panchina e chiamo il mio medico di famiglia per capire se sia necessario andare subito dall’oncologo oppure no.
Sono davanti alla porta dell’oncologo. Entro e mi siedo porgendole il foglio del referto. Non dimenticherò mai la sua espressione; un miscuglio di stupore, preoccupazione e dolore.
Capisco il significato dei termini misteriosi: lesioni secondarie=metastasi=male.
Devo sottopormi ad una biopsia al fegato per stabilire la natura delle lesioni e poi si deciderà come procedere.
Sono stordita dalla notizia, ma in un certo qual modo tranquilla. Esco dall’Ospedale e salgo in auto. Chiamo Lui e senza mezzi termini gli dico che sono in metastasi. Silenzio, di quelli assordanti, pieni di domande senza risposta, pieni di perché. Cerco di tranquillizzarlo, trasmettendogli la calma che in quel momento ho dentro, prendendo tempo fino al prossimo esito.
Il giorno della conferma arriva troppo presto e la mia vita e la vita di chi mi sta vicino è troppo presto travolta dagli eventi che seguiranno.
Un weekend di due giorni prima dell’inizio della chemioterapia vissuto senza pensare al domani, così intensamente che ancora oggi, se chiudo gli occhi, lo rivedo in tutte le sue sfumature. Soltanto alla fine, sulla strada di casa, gli dico che lo voglio lasciare perché non trovo giusto sottoporlo a questo tormento. Si arrabbia e si offende e mi urla che rimarrà con me, che io lo voglia o no, perché non c’è altro da fare, perché nulla potrebbe alleviare il dolore che sta provando.
Insieme decidiamo di come parlare ai miei figli: il compito più difficile, più doloroso.
Non ci sono le parole giuste per spiegare a due ragazze poco più che adolescenti che la mamma sta di nuovo male, che si dovrà sottoporre a chemioterapia e che la situazione non è delle migliori. Soprattutto non è facile riuscire a non far trasparire quello che il mio medico di famiglia, di fronte alla mia determinazione, mi ha appena detto a chiare lettere: “Con una situazione come la tua, su 20 persone, 15 muoiono a breve, 3 sopravvivono qualche anno e 2 arrivano alla remissione della malattia”. Non è facile, anche se al mio medico io ho detto: “Bene, io sarò tra quelle due”.
A Pietro dico soltanto che sto facendo una cura che mi farà perdere i capelli. Un altro grosso problema mi affligge e mi distrugge: mia madre.
L’Alzheimer è avanzato a tal punto che anche la badante ha difficoltà a gestire le crisi di violenza che arrivano improvvise. Cosa faccio? Come?
Navigo in Internet e digito “possibilità di sopravvivenza con metastasi al fegato ed ai linfonodi”. Miglior risposta: 6 mesi: Che ci faccio io con 6 stupidi mesi?
Decido di portare mia madre in un istituto per malati di Alzheimer, il ”Non ti scordar di me”, vicino ad Orvieto. Con il senno del poi, mai scelta si è rivelata più giusta. Un posto meraviglioso, gestito da una donna altrettanto meravigliosa che rimarrà per sempre nel mio cuore.
15 giugno 2010: prima seduta di chemioterapia. Cristina è con me, non mi lascia da quando è cominciato il tutto, portabandiera di tutte le mie amiche. Si è caricata dei miei problemi e mi aiuta con il suo amore incondizionato a sopravvivere. L’ago infilato nel braccio, la medicina che goccia a goccia entra nelle vene. Volti più o meno spaventati mi guardano ed io cerco di sorridere e di non pensare. La terapia finisce e le telefonate arrivano, una dietro l’altra da voci cariche di ansie malcelate. Tranquillizzo tutti e vado avanti.
Per scrupolo io e Patrizia partiamo per Terni, per avere un’altra opinione. Siamo fiduciose ed ottimiste, Acquariane di professione. Mentre il medico guarda le immagini della Pet gli chiedo di trovare in questo pandemonio una parola di speranza, una nota positiva. Mi guarda e mi dice che di positivo non c’è niente.
Insisto e gli sorrido. Penso che in quel momento il mio ottimismo sia stato contagioso perché all’improvviso il medico tira fuori dal cilindro una buona notizia, che non è granchè di fronte allo sfacelo che mi ha colpito, ma è pur sempre qualcosa: le metastasi derivano dal seno e la ricerca in questo campo è più avanzata, con più terapie opzionabili. Ed è a questo che mi sono attaccata con tutta me stessa, cercando di impedire alla paura di offuscare la luce di quell’unica candela accesa nella stanza buia.
Sono in giardino a prendere il sole e mi passo le mani tra i capelli. Tra le dita, me ne rimangono due, dritti, innaturali. E’ domenica. Mercoledì mattina ho il rasoio da barba in mano e mi sto radendo la testa, con le lacrime che mi offuscano completamente la vista.
Nell’armadio c’è pronta la parrucca e…una nuova vita.
L’obiettivo che i medici si sono promessi di ottenere con il primo ciclo di chemio è quello di contenere l’evoluzione della malattia. Invece, al primo controllo, sono in remissione. Analisi senza asterischi e riduzione delle metastasi. Risultato insperato.
La mia vita procede di chemio in chemio e di tac in tac. Trovo la forza di mantenere i miei ritmi invariati: casa, lavoro, Figli, Amore. Non voglio sentirmi malata per poter fregare al meglio il bastardo che è in me.
Mi sento donna, mi sento femmina, mi sento mamma, ma, no, non mi sento malata.
Senza rendermene conto la mia vita si divide in due esistenze parallele, ma ben distinte.
I figli, l’Amore, mia Madre, gli amici, il lavoro mi permettono ogni giorno di fare il carico di sensazioni positive, di impulsi magnetici che mi permettono di affrontare l’altra esistenza, quella buia, scura, dolorosa. Ho imparato a rigirare la medaglia, a cercare il meglio anche dove non si può trovare per definizione.
In ospedale, con l’ago infilato nelle vene, siamo tutti uguali. Si parla, ci si racconta, si scherza sdrammatizzando quella realtà che ci è piombata addosso.
Incontro Simona. I nostri genitori sono stati amici in un passato ormai lontano. I ricordi riaffiorano e nasce un legame saldo e importante. Una donna incredibile, che ha lottato per quel figlio che teneva in grembo al di là della propria vita. Continuo a vederla nella mia mente e nel mio cuore e la sua forza è in parte diventata la mia.
Quattro anni tra chemio e medicinali di nuova generazione, con effetti collaterali pesanti, ma trascurabili se vissuti come un atto dovuto per arrivare alla convivenza con la malattia.
Quattro anni di terapie diverse, ognuna delle quali ha avuto lo stesso iter: efficace, stabile, inefficace. Così detto sembra la descrizione di un qualsiasi quadro clinico, ma le sensazioni e le emozioni che ti assalgono ad ogni controllo sono di una violenza inaudita. L’entusiasmo lascia il posto al terrore e viceversa, in un’altalena di sentimenti che ti attanagliano e ti provano fino allo stremo delle forze.
Solo sovrapponendo nella mia mente le immagini viste e riviste del mio fegato, mi rendo conto dell’incredibile percorso che ho fatto. Ho visto ridursi e scomparire metastasi grosse come un mandarino che avevano invaso ogni lobo mentre il tessuto si rigenerava e mi rigenerava.
A marzo 2014 mi sottopongo ad una Pet di controllo il cui esito cambierà di nuovo il corso della mia vita.
“Non si apprezzano significativi patologici accumuli del tracciante…”! Non si colora, non si accende…Non c’è più traccia di malattia in atto!
L’unica metastasi visibile è inattiva ed una volta che è stata chirurgicamente rimossa i medici hanno potuto pronunciare quella parola per la quale hanno studiato, sofferto e lottato per tutta la loro carriera: “Guarita”.
E’ assurdo, lo so, ma “guarita” è una parola che pesa come un macigno, che mi ha sconvolto e caricato di una responsabilità che ancora sto imparando a gestire. Ogni controllo che ho fatto dopo l’operazione al fegato mi ha fatto piombare in uno stato di terrore puro per la paura di poter rientrare in un tunnel già faticosamente percorso. Le mie cellule hanno dimostrato che possono ammalarsi, ma non so se troverò più la forza di rivivere quello che ho passato.
Se rigiro la medaglia, però, mi dico che è vero che le mie cellule hanno dimostrato di potersi ammalare, ma è pur vero che hanno dimostrato di essere maledettamente ostinate e di rigenerarsi con la stessa facilità con la quale si perdono nell’abisso della malattia.
E’ stata un’esperienza incredibile, vissuta sempre consapevolmente. Non ho mai sottovalutato il nemico, ma allo stesso tempo non mi sono sottomessa al suo piano distruttivo.
Dieci anni della mia vita, otto operazioni, quattro anni di terapia: eccomi, sono qui a raccontare la mia esperienza sperando in cuor mio che possa far del bene a chiunque attraversi il buio e la paura dell’ignoto e trovi nelle mie parole un appiglio al quale aggrapparsi.
Mentre la malattia mi scorreva dentro ho visto il mio matrimonio andare in mille pezzi fino ad una sentenza che legalmente ha sancito la fine della nostra vita insieme; ho visto mia madre accartocciarsi su se stessa fino alla morte che l’ha finalmente liberata da un peso che lei stessa non avrebbe mai voluto sostenere; ho visto i miei figli crescere e lottare per convivere con una madre che non era come le altre, spaventati dalla paura di rimanere soli, ma allo stesso tempo fortificati dallo stesso timore; ho visto il mio cuore esplodere in tanti coriandoli di tanti colori diversi per l’amore di un uomo ed implodere davanti alla scelta più difficile della mia vita: lasciarlo. Penso che l’amore, quello vero, possa essere dimostrato anche lasciando libero l’altro pur con la paura o la certezza che non torni più.
I miei figli sono stati il faro di questa rinascita e li amo con tutta me stessa.
Un uomo importante e meraviglioso mi ha dato forza con la positività dell’Amore, quello con la A maiuscola.
Amici veri che hanno condiviso ogni momento brutto e bello di questi lunghi anni, mi hanno spinto a lottare ed a non arrendermi mai.
Jennifer è per me un’amica, una sicurezza, un rifugio e sì, anche il mio oncologo. Ti voglio bene, tanto!
Ringrazio tutti i medici che hanno combattuto con me questa battaglia, le infermiere e le volontarie che sono la forza vitale di un reparto dove la morte si incrocia quotidianamente con la vita. Ringrazio in particolar modo Alessandra per la grande lezione che ha impartito a tutti noi, per la sua forza e per il suo coraggio.
Ciao Alessandra!