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Oltre la malattia

27 Marzo 2024
di intermedianews
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Promuove la sanità regionale il 47% italiani ma il 35% la boccia al Sud

Il 47,7% degli utenti ha una percezione positiva del Servizio sanitario della propria regione (Ssr): l’8,7% e il 39% ritengono che la sanità locale sia di un livello qualitativo, rispettivamente, ottimo e buono. Il 28,1% esprime invece un giudizio di sufficienza e il 22,4% ritiene che il Servizio sanitario regionale sia al di sotto delle proprie aspettative o esigenze giudicandolo ‘insufficiente’. Ma se più di un cittadino su 5 esprime un giudizio negativo, l’insufficienza del proprio Ssr è tuttavia riportata solo dal 9,4% dei residenti nel Nord-Est contro addirittura il 35,2% degli utenti che vivono nelle aree del Mezzogiorno.

Il dato emerge dal 21/mo Rapporto ‘Ospedali & Salute’, promosso da Aiop (Associazione Italiana ospedalità privata) e realizzato in collaborazione con il Censis. Il Rapporto è uno strumento di monitoraggio dell’efficacia e efficienza del sistema ospedaliero italiano, in entrambe le sue componenti, di diritto pubblico e di diritto privato, e offre una valutazione del Servizio Sanitario Nazionale basata su analisi che tengono conto sia dei dati ufficiali pubblicati dal Ministero della Salute e da Agenas sia dell’esperienza diretta dei pazienti. In particolare, il Ssr è giudicato insufficiente dal 19,4% dei cittadini del Nord-ovest del Paese, dal 9,4% del Nord-est, dal 17,7% delle regioni del Centro e dal 35,2% dei cittadini del Sud e Isole. Ne danno invece un giudizio ‘positivo’ il 55,7% dei cittadini del Nord-ovest, il 66,7% del Nord-est, il 49,7% del Centro e il 29% di Sud e Isole. Emerge inoltre, si legge nell’indagine, “un’estrema eterogeneità nella qualità degli interventi e dei trattamenti offerti dalle strutture del Ssn: una variabilità tra aree geografiche, ma anche all’interno di una stessa area geografica e tra strutture”. Ad esempio, nell’area cardiocircolatoria, mentre nel Nord, e ancora più nel Sud e nelle Isole, la proporzione di strutture di diritto privato di ‘qualità alta/molto alta’ è superiore rispetto a quella delle strutture pubbliche (al Nord il 58% delle strutture pubbliche sono giudicate di qualità alta contro il 68% delle private accreditate e al Sud il 47% delle pubbliche contro il 65% delle private accreditate), nel Centro la situazione è ribaltata (è giudicato di alta qualità il 68% delle pubbliche contro il 44% delle private accreditate). Sempre al Centro, inoltre, le strutture di qualità bassa/molto bassa sono proporzionalmente di più tra le strutture accreditate.

19 Marzo 2024
di intermedianews
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Alimentazione e cancro: cinque regole per i pazienti

La malnutrizione è una dura realtà che interessa ben otto pazienti oncologici su dieci. Quello della dieta prima, durante e dopo le cure oncologiche è un aspetto sempre più importante della lotta ai tumori. Secondo gli ultimi dati oggi nel nostro Paese sei persone su dieci, a cui viene diagnostica una neoplasia, riescono poi a sconfiggerla. Diventa quindi fondamentale concentrare la nostra attenzione alla qualità di vita del malato. E questa passa anche dalla tavola e dalla quantità e qualità del cibo assunto. Gli effetti collaterali delle terapie possono interessare l’apparato gastro-intestinale e impedire di conseguenza una buona nutrizione.

 

Ecco cinque regole che il paziente deve sempre seguire:

 

  1. Mangiare sempre insieme al resto della tua famiglia: i pasti devo continuare ad essere un momento di convivialità tra i parenti
  2. Cercare di consumare sempre cinque pasti al giorno: 3 principali (colazione, pranzo, cena) più due spuntini (a metà mattina e pomeriggio).
  3. Prima di ogni pasto provare a fare una passeggiata, la camminata stimola l’appetito. Una volta a tavola mangiare lentamente, mastica bene e ricordati di riposare una volta finito a tavola.
  4. Bere spremute o centrifughe di frutta e verdura (possibilmente) fresche e di stagione, anche durante il pranzo o la cena.
  5. Se proprio non si riesce a mangiare nulla, e il problema persiste per più giorni, rivolgersi al medico curante: potrà consigliare di assumere un integratore alimentare.

 

18 Marzo 2024
di intermedianews
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I papà italiani i più vecchi nella Ue, il primo figlio a quasi a 36 anni

Diventare papà per la prima volta è un’esperienza che gli uomini italiani continuano a spostare sempre più avanti nel tempo, più di quanto si faccia in altri Paesi europei. I più recenti dati Istat evidenziano, infatti, che in Italia si diventa papà mediamente a 35,8 anni, mentre in Francia a 33,9 anni, in Germania a 33,2. Un uomo su 3 supera persino questa soglia, risultando ancora senza figli oltre i 36 anni.

Evidenze scientifiche dimostrano però che le caratteristiche funzionali dello spermatozoo – motilità, morfologia e anche i danni al Dna – peggiorano con l’aumentare dell’età. A ciò si aggiunge che con l’età aumenta il tempo di esposizione agli inquinanti ambientali esterni, come le microplastiche che hanno dimostrato essere un problema per la fertilità maschile. Questo il quadro tracciato in occasione della Festa del Papà dagli esperti della Società Italiana di Andrologia (Sia).

“In Italia l’età in cui si fa il primo figlio è aumentata di 10 anni, passando dai 25 anni della fine degli anni ’90 ai circa 36 attuali. La nostra società sta assegnando alla riproduzione un ruolo tardivo dimenticando che la fertilità, sia maschile che femminile, ha il picco tra i 20 e i 30 anni e la potenzialità fecondante del maschio è in netto declino – spiega Alessandro Palmieri, presidente Sia -. Bisogna insegnare ai giovani l’importanza di una fertilità sana al momento giusto, e che va preservata. È fondamentale sfatare il mito dell’uomo fertile a tutte le età”. Gli esperti mettono in guardia anche sulle probabilità che i figli sviluppino problemi di salute a breve e lungo termine.

Al fine di ‘aiutare’ la fertilità maschile, la Sia, con l’Istituto di Farmacologia Clinica dell’Università degli studi di Catanzaro, ha sviluppato un nuovo integratore. Il composto è il Drolessano, un mix di 7 sostanze naturali i cui benefici sono dimostrati da una revisione di studi pubblicata sulla rivista Uro. Due di tali sostanze hanno specifici effetti sulla fertilità maschile: l’escina, estratta dai semi e dal guscio dell’ippocastano, un antiossidante utile nel preservare la fertilità ma anche per prevenire i sintomi della prostatite cronica implicata nella riduzione della fertilità, ed il licopene, presente nei pomodori, che può aumentare la qualità dello sperma e proteggere dagli effetti dei radicali liberi.

15 Marzo 2024
di intermedianews
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ISS: stabile il numero di casi di sindromi simil-influenzali

E’ stabile il numero di casi di sindromi simil-influenzali (Ili) in Italia nella decima settimana del 2024, dal 4 al 10 marzo. L’incidenza è infatti pari a 6,3 casi per mille assistiti contro il 6,4 della settimana precedente. Particolarmente colpiti i bambini sotto i 5 anni di età in cui si osserva un livello di incidenza di 18,1 casi per mille assistiti contro il 19,4 precedente. Questo quanto emerge dal rapporto epidemiologico RespiVirNet, elaborato dal Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss).

La sorveglianza epidemiologica, coordinata dall’Iss in collaborazione con il ministero della Salute, si avvale del contributo dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, dei referenti presso le Asl e le Regioni e dei laboratori di riferimento regionale per i virus respiratori. L’obiettivo è descrivere i casi di sindrome simil-influenzale, stimarne l’incidenza settimanale durante la stagione invernale, in modo da determinare l’inizio, la durata e l’intensità dell’epidemia. Nella decima settimana del 2024 in tutte le Regioni/Province Autonome italiane, tra quelle che hanno attivato la sorveglianza, il livello di incidenza delle sindromi simil-influenzali è sopra la soglia basale (3,99 casi per mille assistiti) tranne il Molise e la Basilicata che raggiungono il livello basale. L’incidenza osservata in alcune regioni, nota peraltro il rapporto, è fortemente influenzata dal ristretto numero di medici e pediatri che hanno inviato, al momento, i loro dati. La popolazione degli assistiti in sorveglianza è mediamente pari a 2.064.738 assistiti per settimana, pari al 3,6% dell’intera popolazione italiana.

11 Marzo 2024
di intermedianews
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Covid, il virus può rimanere nell’organismo per oltre 1 anno

Il Covid può persistere nel sangue e nei tessuti dei pazienti per più di un anno dopo la fine della fase acuta della malattia, secondo una nuova ricerca della University of California San Francisco. Gli studiosi hanno trovato frammenti di Sars-CoV-2, denominati antigeni Covid, persistenti nel sangue fino a 14 mesi dopo l’infezione e per più di due anni in campioni di tessuto di persone colpite dal virus. I risultati sono stati presentati alla Conferenza sui retrovirus e le infezioni opportunistiche (Croi), che si è tenuta dal 3 al 6 marzo 2024 a Denver.

All’inizio della pandemia, si pensava che il Covid-19 fosse una malattia transitoria. Ma un numero crescente di pazienti, anche quelli che in precedenza erano sani, hanno continuato ad avere sintomi come confusione mentale, problemi digestivi e problemi vascolari, per mesi o addirittura anni. I ricercatori hanno esaminato campioni di sangue di 171 persone che erano state infettate da Covid. Utilizzando un test ultrasensibile per la proteina Spike, che aiuta il virus a penetrare nelle cellule umane, hanno scoperto che il virus era ancora presente fino a 14 mesi dopo in alcune persone. Tra coloro che erano ricoverati in ospedale per Covid, la probabilità di rilevare gli antigeni era circa il doppio. Poiché si ritiene che il virus persista nei serbatoi dei tessuti, gli studiosi si sono rivolti poi alla Long Covid Tissue Bank, che contiene campioni donati da pazienti con e senza Long Covid.

Hanno rilevato porzioni di RNA virale fino a due anni dopo l’infezione, sebbene non vi fossero prove che le persone si fossero reinfettate. L’hanno trovato nel tessuto connettivo dove si trovano le cellule immunitarie, cosa che suggerisce che i frammenti virali possano causare l’attacco del sistema immunitario. I ricercatori evidenziano che sono necessari ulteriori studi per determinare se la persistenza di questi frammenti determina il Long Covid e i rischi associati come infarto e ictus. Ma, sulla base di questi risultati, il team di ricerca è coinvolto in numerosi studi clinici che stanno testando se gli anticorpi monoclonali o i farmaci antivirali possono rimuovere il virus e migliorare la salute delle persone con Long Covid.

–  Il Covid può persistere nel sangue e nei tessuti dei pazienti per più di un anno dopo la fine della fase acuta della malattia, secondo una nuova ricerca della University of California San Francisco. Gli studiosi hanno trovato frammenti di Sars-CoV-2, denominati antigeni Covid, persistenti nel sangue fino a 14 mesi dopo l’infezione e per più di due anni in campioni di tessuto di persone colpite dal virus. I risultati sono stati presentati alla Conferenza sui retrovirus e le infezioni opportunistiche (Croi), che si è tenuta dal 3 al 6 marzo 2024 a Denver.

All’inizio della pandemia, si pensava che il Covid-19 fosse una malattia transitoria. Ma un numero crescente di pazienti, anche quelli che in precedenza erano sani, hanno continuato ad avere sintomi come confusione mentale, problemi digestivi e problemi vascolari, per mesi o addirittura anni. I ricercatori hanno esaminato campioni di sangue di 171 persone che erano state infettate da Covid. Utilizzando un test ultrasensibile per la proteina Spike, che aiuta il virus a penetrare nelle cellule umane, hanno scoperto che il virus era ancora presente fino a 14 mesi dopo in alcune persone. Tra coloro che erano ricoverati in ospedale per Covid, la probabilità di rilevare gli antigeni era circa il doppio. Poiché si ritiene che il virus persista nei serbatoi dei tessuti, gli studiosi si sono rivolti poi alla Long Covid Tissue Bank, che contiene campioni donati da pazienti con e senza Long Covid.

Hanno rilevato porzioni di RNA virale fino a due anni dopo l’infezione, sebbene non vi fossero prove che le persone si fossero reinfettate. L’hanno trovato nel tessuto connettivo dove si trovano le cellule immunitarie, cosa che suggerisce che i frammenti virali possano causare l’attacco del sistema immunitario. I ricercatori evidenziano che sono necessari ulteriori studi per determinare se la persistenza di questi frammenti determina il Long Covid e i rischi associati come infarto e ictus. Ma, sulla base di questi risultati, il team di ricerca è coinvolto in numerosi studi clinici che stanno testando se gli anticorpi monoclonali o i farmaci antivirali possono rimuovere il virus e migliorare la salute delle persone con Long Covid.