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Oltre la malattia

15 Aprile 2024
di intermedianews
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Il report, 40% italiani farebbe più controlli con liste attesa più corte

Quattro italiani su 10 farebbero più prevenzione, sottoponendosi a più controlli medici, se i tempi di attesa fossero inferiori. Resta stabile al 41% la percentuale di persone che fa controlli regolari, mentre il 45% si cura solo quando inizia a stare male. Una donna su 4 (25%) non va dal ginecologo da oltre 3 anni e il 30% delle italiane non fa il Pap test. Insomma, si fa ancora poca prevenzione in Italia e tra i fattori che più scoraggiano ci sono proprio le liste d’attesa. Lo indica l’ultima indagine dell’Osservatorio Sanità di UniSalute, che sonda periodicamente, insieme a Nomisma, l’attitudine degli italiani nei confronti dei controlli e delle visite di prevenzione. La a ricerca ha coinvolto un campione rappresentativo di 1.200 persone, tra i 18 e i 75 anni, intervistate nel 2023.

Oltre alle attese, una parte di italiani è frenato da problemi organizzativi: il 22% si controllerebbe di più se ci fosse maggior disponibilità di date e orari. Tra i dati positivi: quasi la totalità del campione (93%) afferma di essersi rivolto al proprio medico di base almeno una volta nel 2023. Negli ultimi 12 mesi, 4 italiani su 5 (80%) hanno anche svolto delle analisi del sangue, con le donne più attente (l’83% le ha effettuate) rispetto agli uomini (77%). Risultano però ancora decisamente trascurate molte visite specialistiche: più di un italiano su 3 (35%), ad esempio, non fa una visita odontoiatrica o un’igiene dentale da oltre 3 anni, e il 44% non ha mai eseguito una visita dermatologica per la valutazione dei nei.

Oltre ai tempi di attesa, in molti casi influiscono anche considerazioni economiche: tra chi non ha effettuato alcun esame di prevenzione da oltre 3 anni, ben il 36% cita come motivazione i costi troppo elevati e il 47% dice che ne effettuerebbe di più se fossero gratuiti. Ma l’indagine evidenzia anche quanto pesi sulle decisioni degli italiani la scarsa cultura della prevenzione: circa 2 su 3 (64%) confessano di evitare le visite, rimandandole in caso di problemi di salute trascurabili (48%) o ammettendo di cercare di farne il meno possibile (16%). Quasi uno su 2 (45%), infine, dichiara di preferire curarsi solo quando comincia a soffrire di un disturbo o di una malattia vera e propria.

 

 

 

 

12 Aprile 2024
di intermedianews
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Tumori: aumentano gli studi di fase I in Italia, oltre 100 nel 2023

In 20 anni è raddoppiato, dal 9,6% al 18%, il numero dei pazienti che rispondono alle terapie contro il cancro negli studi di fase I. Queste sperimentazioni, un tempo limitate a fornire una prima valutazione della sicurezza e tollerabilità dei farmaci, hanno assunto sempre più un ruolo terapeutico e regolatorio, consentendo anche la rapida approvazione e disponibilità di cure innovative proprio al termine del primo livello della ricerca clinica. E il numero degli studi di fase I in Italia è in netto aumento: nel 2022 sono stati 126, il 19% del totale (662), in crescita dell’8% in due anni (erano l’11% nel 2020). In calo, invece, quelli di fase II (dal 37,5% al 33,5%) e III (dal 46% al 41%). L’oncologia è l’area in cui si concentra il maggior numero di sperimentazioni, il 40% del totale. Nel 2022, in Italia, gli studi di fase I contro i tumori sono stati circa 50, per superare i 100 nel 2023. Va però evidenziato il calo progressivo della ricerca indipendente, cioè non sponsorizzata dall’industria, che soffre la mancanza di risorse e personale. Per fornire a giovani ricercatori provenienti da tutto il mondo gli strumenti per comprendere la metodologia delle sperimentazioni cliniche, implementare idee di ricerca e imparare a valutare la letteratura scientifica, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) organizza oggi e domani a Roma, in collaborazione con l’American Society of Clinical Oncology (ASCO), la seconda edizione del “Clinical Research Course”.
“In Italia – spiega Francesco Perrone, Presidente AIOM – gli studi di fase I sono aumentati in modo sostanziale rispetto al passato perché funziona molto bene il sistema di gestione dei centri di fase I, istituito con la Determina dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) n.809 del 2015, con cui sono stati definiti i criteri minimi e le regole per autorizzare una struttura a condurre queste sperimentazioni. Inoltre, grazie al coordinamento di AIFA, dal 2023 sta prendendo forma il network dei centri di fase I, costituito da circa 60 strutture, in maggioranza oncologiche, che verrà implementato nel corso del 2024. Va inoltre evidenziato il ruolo importante della Commissione congiunta Istituto Superiore di Sanità – AIFA che, nel 2023, ha autorizzato oltre 100 studi di fase I sui tumori”.
Uno studio condotto dal National Cancer Institute e pubblicato su “The Lancet” ha analizzato 465 protocolli di fase I su 13.847 pazienti. In 20 anni è raddoppiata la percentuale delle risposte globali (dal 9,6% del periodo 2000–2005 al 18% del 2013–2019).
“In un ventennio è aumentato il valore terapeutico degli studi di fase I, perché siamo in grado di definire il profilo molecolare e genetico dei tumori e vengono coinvolti pazienti in cui si presume che le nuove molecole possano essere efficaci – afferma Giuseppe Curigliano, membro del Direttivo Nazionale AIOM -. Queste cure sono caratterizzate da una sorta di carta d’identità, che consente di indirizzarle al paziente giusto. Si tratta spesso di terapie mirate a uno specifico bersaglio molecolare e la selezione delle persone da inserire nelle sperimentazioni avviene proprio in relazione al difetto genetico, che caratterizza il singolo tumore. Inoltre, piattaforme tecnologiche innovative hanno definito la nuova generazione dei farmaci anticorpo-coniugati, in cui gli anticorpi monoclonali possono essere associati alla chemioterapia, ad altri anticorpi o a radioisotopi, che portano le radiazioni sulle cellule tumorali. Si tratta di terapie molto potenti, in grado di erogare una potenza pari, ad esempio, a 10mila volte quella della chemioterapia standard. I progressi della ricerca determinano, quindi, una forte crescita del numero di potenziali nuove molecole da inserire nel circuito delle sperimentazioni cliniche, a partire proprio dalla fase I”.
“Vi è anche un aumento di studi con disegni complessi, classificati come fase I/II e I/III, e una maggiore flessibilità delle autorità regolatorie nel valutarli – afferma Saverio Cinieri, Presidente Fondazione AIOM -. Queste ricerche, fino a qualche anno fa, sarebbero state oggetto di singole domande di autorizzazione. Inoltre, la Food and Drug Administration e la European Medicines Agency, cioè l’ente regolatorio americano e quello europeo, negli ultimi anni hanno approvato alcuni farmaci, in particolare immunoterapie per la cura dei tumori, anche solo dopo la fase I, con l’obiettivo di renderli disponibili in tempi molto brevi, soprattutto in assenza di alternative terapeutiche. Da un lato si tratta di un segnale positivo, perché evidenzia l’estrema rapidità del progresso scientifico e delle opportunità di cura per i pazienti, ma va posta sempre molta cautela perché, se vengono eliminate alcune fasi, diventa poi più difficile stabilire il valore relativo dei nuovi trattamenti”. Nel 2023, in Italia, sono state stimate 395.000 nuove diagnosi di cancro.
“È compito di società scientifiche come AIOM e ASCO vigilare perché le approvazioni dei farmaci siano tempestive, ma non premature, in quanto i valori da rispettare sono la medicina basata sulle evidenze, il diritto alle cure dei singoli pazienti e la sostenibilità del sistema sanitario – sottolinea Massimo Di Maio, Presidente eletto AIOM -. L’immediata disponibilità di terapie dopo la fase I dovrebbe corrispondere a casi particolari in cui un reale carattere innovativo si accompagni alla solida evidenza di beneficio e all’urgenza di pazienti che non dovessero avere alternative. È importante anche il coinvolgimento delle associazioni dei pazienti nella definizione di questi aspetti. Con questo corso promosso da AIOM e ASCO vogliamo trasferire ai giovani ricercatori i mezzi perché siano non solo lettori critici degli studi pubblicati in letteratura, ma anche eventuali promotori di progetti di ricerca. Pertanto, offriamo una panoramica esaustiva della metodologia, che spazia dagli studi di fase I a quelli delle fasi successive, fino alle sperimentazioni nelle fasi che seguono la disponibilità del farmaco nella pratica clinica, che dovrebbero essere svolte soprattutto nell’ambito della ricerca indipendente. AIOM ha supportato economicamente, oltre che l’iscrizione al corso di tutti i partecipanti selezionati, anche le spese di viaggio per alcuni ricercatori provenienti dall’estero, in particolare da Paesi disagiati economicamente”.
“Vogliamo rendere i giovani ricercatori protagonisti della progettazione di studi clinici – conclude il Presidente Perrone -. L’insegnamento della metodologia stimola la capacità di svolgere la ricerca indipendente, che può maturare soprattutto nelle fasi tardive delle sperimentazioni, come quelle ‘real world’. Purtroppo dal 2021 al 2022, nel nostro Paese, gli studi clinici non sponsorizzati dall’industria farmaceutica sono diminuiti di circa il 7%. Mancano data manager, infermieri di ricerca, bioinformatici, esperti in revisione di budget e contratti e il finanziamento pubblico in questo settore è da sempre sottodimensionato in Italia. Senza il sostegno delle Istituzioni, molti aspetti centrali della ricerca indipendente, come la qualità di vita dei pazienti, resteranno ai margini della conoscenza scientifica”.

10 Aprile 2024
di intermedianews
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Fertilità: cresce la pratica del congelamento ovociti, in Italia +20% di procedure

Sono sempre di più in Italia le donne che decidono di procedere al congelamento degli ovociti per assicurarsi una chance di gravidanza in futuro, spesso posticipando la decisione di maternità per motivi di lavoro o sociali. E’ il cosiddetto fenomeno del ‘social freezing’, che nel nostro Paese ha fatto registrare un aumento di circa il 20% delle procedure dal 2021 al 2022. La preservazione della fertilità attraverso il congelamento degli ovociti femminili sta prendendo dunque sempre più piede in Europa, Italia compresa, e nel mondo, complici anche le dichiarazioni di personaggi famosi che hanno intrapreso questa strada, per motivi medici o per scelta personale. In media, le procedure in entrambi i casi sono aumentate del 25-30% all’anno dal 2016 secondo la Società americana per le tecnologie di riproduzione assistita (Sart) e la Società europea di Riproduzione Umana ed Embriologia (Eshre), con punte al 46% e al 70% nel biennio 2020-2021 rispettivamente negli Usa e in Australia-Nuova Zelanda. A fotografare la situazione è un nuovo studio del gruppo italiano specializzato in medicina della riproduzione Genera, pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility. I dati del gruppo Genera relativi a 8 cliniche su tutto il territorio nazionale segnalano inoltre per l’Italia un aumento di circa il 20% anno su anno del numero di procedure di ‘social freezing’, il congelamento per motivi prettamente sociali. Nel nuovo studio si mette in evidenza quali sono le chance di ottenere una gravidanza, in un secondo momento, utilizzando gli ovociti prelevati.

“Nelle donne più giovani, quindi fino a 35 anni – spiega il primo autore del paper, Danilo Cimadomo, biologo molecolare e responsabile della Ricerca del gruppo Genera – le probabilità cumulative di nati sono comprese fra il 70% con 15 ovociti prelevati e congelati (considerato il numero ottimale) e il 95% con 25 ovociti. Ma ci sono comunque chance di gravidanza comprese tra il 30% e il 45% nel caso in cui vengano vitrificati 8-10 ovociti. Oltre la soglia dei 35 anni, il numero di ovociti necessari per raggiungere la gravidanza è chiaramente maggiore, rendendo la procedura di preservazione della fertilità più impegnativa. Per questo motivo, tutti i centri specializzati oggi consigliano alle donne di fare questa scelta, se ritenuta opportuna a seconda dei propri progetti di vita, entro i 35-37 anni, in modo da avere le migliori possibilità di riuscita se un giorno si dovranno utilizzare quegli ovociti congelati, nel caso insorgessero problemi nel tentare una gravidanza”. La Società Americana per la Medicina della Riproduzione (Asrm) ha rimosso l’etichetta di procedura sperimentale dalla vitrificazione degli ovociti nel 2013, spiega inoltre Laura Rienzi, embriologa e direttore scientifico del gruppo Genera, “e anche per questo motivo, la richiesta di procedure di preservazione della fertilità è aumentata sensibilmente in tutto il mondo”. La vitrificazione viene per lo più condotta manualmente, richiedendo quindi operatori ben formati, costantemente monitorati ed esperti. “Ecco perché – precisa Rienzi – l’automazione sta assumendo un ruolo sempre più importante nei nostri laboratori: le nuove tecnologie ci consentono di migliorare i risultati delle tecniche. La necessità di trattamenti di procreazione medicalmente assistita è in costante crescita in tutto il mondo. In parallelo i progressi tecnologici, come la valutazione dei gameti basata sull’intelligenza artificiale e l’automazione, promettono una sempre maggiore standardizzazione dei protocolli”. Anche grazie agli sforzi della scienza, la crioconservazione degli ovociti “quando scelta per motivi sociali, è un tema che sta stimolando il dibattito sociale e politico nel nostro Paese e confidiamo – conclude l’embriologa – che presto non sarà più percepita come un tabù, ma come uno strumento per salvaguardare l’autonomia riproduttiva delle donne”.

9 Aprile 2024
di intermedianews
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Sanità: comunicazione di aziende e ospedali bocciata dal 42% dei cittadini

Il 42% dei cittadini giudica insufficiente la qualità della comunicazione esterna degli ospedali e delle aziende sanitarie del nostro Paese. Sono persone che consultano siti, social e altri media ufficiali di queste strutture, alla ricerca d’informazioni sulla salute e non solo sulle prestazioni medico-sanitarie elargite. I testi on line sono però giudicati di non facile comprensione dal 23% degli utenti, il 37% non li ritiene esaustivi e per il 43% non vengono aggiornati regolarmente. Infatti nel 40% dei casi non sono state trovate tutte le informazioni desiderate. Inoltre oltre il 50% dei cittadini vorrebbe leggere sui siti più notizie sulle principali patologie, sulla prevenzione primaria di queste e più in generale sui comportamenti sani da adottare. Per quanto riguarda i social media si richiede una maggiore presenza della azienda attraverso la pubblicazione di contenuti soprattutto su Facebook (69%), You Tube (32%) e Instagram (29%). Il 51% non ha mai letto un comunicato stampa della propria azienda/ospedale e solo l’8% consulta regolarmente la newsletter dell’ospedale di riferimento. È quanto emerge da un’indagine promossa tra cittadini italiani e utenti di ospedali e aziende sanitarie. Rientra nel progetto “Comunicazione interna ed esterna nelle aziende sanitare: dall’ufficio stampa alla comunicazione digitale”. E’ promosso dal Commissario Straordinario dell’Azienda Sanitaria Locale Roma 1 Giuseppe Quintavalle in collaborazione con Rossana Berardi (Professore ordinario di Oncologia all’Università Politecnica delle Marche e Tesoriere Nazionale AIOM-Associazione Italiana di Oncologia Medica) e Mauro Boldrini (Direttore della Comunicazione di AIOM). Si pone l’obiettivo di potenziare la comunicazione delle strutture sanitarie della nostra Penisola al fine di migliorare complessivamente il sistema sanitario nazionale. I risultati dell’indagine sono presentati oggi a Roma in una conferenza stampa insieme a quelli di una seconda survey. E’ stata svolta tra 35 rappresentanti di altrettanti Policlinici, Aziende Ospedaliere o Universitarie, IRCCS, AST o ASL attivi sull’intero territorio nazionale. Il 62% degli “addetti ai lavori” giudica molto positiva la comunicazione esterna della propria struttura sanitaria ma il 17% ammette di non avere un ufficio stampa interno. Il 48% sostiene di non possedere un piano editoriale preciso e il 51% non ha una procedura prestabilita per divulgare all’esterno le notizie. Solo il 26% afferma di poter usufruire di un vero social media manager per la gestione giornaliera dei vari profili Facebook, Instagram o You Tube.

“Con il nuovo progetto vogliamo incoraggiare il più possibile una migliore gestione della comunicazione della nostra sanità – sottolinea Giuseppe Quintavalle -. Ogni singolo ospedale, a prescindere dalle sue dimensioni, e ogni ASL possono svolgere un ruolo davvero importante nel favorire l’accesso e la circolazione d’informazioni corrette e certificate. La salute, la medicina e la sanità sono argomenti molto complessi e che riguardano l’intera società, non solo i pazienti e i loro caregiver. Il nostro sistema sanitario nazionale deve innovarsi anche sul versante della comunicazione. L’attività sui media digitali e quelli tradizionali vanno maggiormente curati e affidati a professionisti opportunamente formati”. A breve saranno pubblicate delle Raccomandazioni nazionali specifiche per le aziende sanitarie. “Le sta elaborando il nostro working group che ha riunito medici e giornalisti – prosegue Rossana Berardi -. Forniranno delle indicazioni precise e aiuteranno così le strutture sanitarie ad elaborare delle proprie ed efficaci strategie di comunicazione. Come hanno evidenziato le due indagini vi è l’esigenza e anche l’urgenza di una migliore collaborazione tra media e salute. Una comunicazione poco chiara può incentivare la diffusione di fake news e questo è abbastanza evidente in oncologia. Il cancro rappresenta un grande problema socio-sanitario con oltre 3 milioni di persone coinvolte solo in Italia. Anche grazie ad una corretta comunicazione possiamo sconfiggere le malattie oncologiche. Ed è anche con questo obiettivo che parte la seconda edizione del primo corso di perfezionamento universitario in “Comunicare il cancro, la medicina e la salute” promosso dall’Università Politecnica delle Marche. Sono disponibili 25 posti, si svolgerà in modalità ibrida con cadenza quindicinale e avrà una durata semestrale. Le lezioni inizieranno il prossimo 10 maggio mentre la scadenza per la presentazione delle domande di partecipazione è il 15 aprile. Un team multidisciplinare di professionisti insegnerà ai partecipanti come affrontare l’informazione e la comunicazione sui temi della medicina e della salute, con particolare riguardo all’ambito oncologico”. “Proprio la pandemia ci ha insegnato quanto siano fondamentali anche le nuove forme di comunicazione digitale – aggiunge Mauro Boldrini -. Pensiamo, per esempio, alle dirette social oppure agli incontri da remoto che ci hanno accompagnato nei momenti più difficili del biennio 2020-2021. Eppure, dalla survey emerge come addirittura il 97% delle strutture sanitarie non abbia una propria Web TV. A volte risultano carenti anche i servizi più banali e che riguardano direttamente le funzioni primarie degli ospedali o delle ASL. Nel 14% dei casi dal sito web dell’azienda non è possibile scaricare o compilare direttamente on line della modulistica. Mentre ben il 33% degli utenti non ha mai prenotato on line una prestazione sanitaria. Resta ancora molta strada da percorrere, per una corretta comunicazione interna ed esterna, e tutti gli attori coinvolti devono fare la loro parte”.

“Si calcola che circa un terzo delle notizie sui tumori pubblicate sui social media sono false o imprecise da un punto di vista scientifico – afferma Elio Rosati, Segretario Regionale di Cittadinanzattiva Lazio -. Significa che milioni di persone, sull’intero territorio nazionale, rischiano di leggere e condividere fake news su un argomento molto delicato. Per “proteggere” i cittadini da questi pericoli serve una nuova alleanza tra i medici e i professionisti dell’informazione”. “Il personale sanitario deve imparare anche a comunicare correttamente con i media, i pazienti e anche il resto della comunità scientifica – conclude Antonio Magi, Presidente dell’Ordine dei Medici di Roma -. Le nuove tecnologie possono aiutarci nel nostro lavoro e favorire contatti diretti ed immediati. Inoltre il web garantisce un facile ed immediato acceso a moltissime informazioni di carattere medico-sanitario. I medici devono svolgere un ruolo educativo fondamentale e indirizzare gli utenti verso fonti di notizie sicure e certificate”.

8 Aprile 2024
di intermedianews
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Obesità: appello esperti, “Accelerare su attività fisica in ricetta”

Lo sport come un farmaco, prescrivibile dal medico in ricetta, prestazione esigibile alla stregua di un Lea o Livello essenziale di assistenza. L’idea non è nuova: “C’è un progetto di legge su questo, sull’attività fisica come forma di prevenzione e trattamento trasversale a più patologie, ed è in discussione una proposta di legge mirata in modo specifico all’obesità, che include anche l’esercizio fisico. Ma ancora non si è arrivati a un’approvazione finale” e l’auspicio del mondo medico-scientifico è che si possa “accelerare l’iter legislativo in corso”. A farsi portavoce dell’appello è Luca Busetto, past president della Sio (Società italiana dell’obesità) e vice president dell’Easo (Società europea per lo studio dell’obesità) per la regione Sud. “Siamo completamente d’accordo sul concetto alla base di queste iniziative e ci auguriamo che vengano implementate al più presto”, dichiara lo specialista in occassione della Giornata mondiale dell’attività fisica del 6 aprile.

A differenza di una semplice raccomandazione a muoversi di più per contrastare i danni della sedentarietà pericolosamente diffusa anche tra i giovanissimi, una vera e propria prescrizione medica a fare sport “ne aumenterebbe la disponibilità – ragiona Busetto, Azienda ospedale-università di Padova – con la garanzia di un’equità maggiore nell’accesso a una pratica che è considerata uno dei pilastri del benessere e dello stato generale di salute”. In concreto, come funzionerebbe l’opzione ‘attività fisica in ricetta’? “Non sappiamo ancora se ci saranno pratiche rimborsate – risponde l’esperto – oppure se sia prevista, ad esempio, una deduzione fiscale delle spese sostenute per l’attività fisica qualora questa sia inserita in una prescrizione medica, per il trattamento o la prevenzione di una malattia. E’ ancora prematuro parlare di modalità. Ma dare la possibilità al cittadino, in particolare a quello che per ragioni di salute può beneficiarne di più, di avere un più facile accesso all’attività fisica anche dal punto di vista economico – ripete lo specialista – è sicuramente una cosa positiva”.

L’attività fisica, chiarisce Busetto, va considerata un ‘farmaco’ non solo contro i chili di troppo: “Il peso che ha l’attività fisica nella prevenzione e nel trattamento dell’obesità – precisa l’esperto – è lo stesso che ha nella prevenzione e nel trattamento di tutte le altre patologie croniche. Dal diabete all’ipertensione, dalle malattie cardiovascolari ad alcune forme di cancro”. Incentivare lo sport in ricetta potrebbe rappresentare un ‘vaccino’ e una medicina con più indicazioni. La speranza è che accada in fretta.